1971: alcune osservazioni sulla Questione Meridionale

Note di oggi: il pretesto per affrontare la Questione Meridionale è dato, all'epoca, dalla lettura di due romanzi di autori del Sud: Francesco Jovine e Salvatore Marotta.

I loro due romanzi più significativi e famosi hanno come scenari due ambienti molto diversi tra loro del Sud d'Italia: il profondo sud dell'appennino molisano e il groviglio di vicoli metropolitani di Napoli.

 

Prefazione

Il problema del Meridione ha subito costituito un punto critico nella politica dello stato unitario: sia quando il Meridione venne in vario modo sfruttato dalle forze settentrionali nel loro sviluppo industriale; sia quando si cercò, in qualche misura, pur sempre insufficiente, un miglioramento di quelle regioni. E’ stato quindi oggetto di una azione politica molto spesso insensibile all’importanza che il sud poteva avere per uno sviluppo armonico di tutto il paese.

Già nei primi anni del novecento, con le grandi figure del Villari, del Fortunato, del Salvemini, del De Viti De Marco, si è proposto come problema fondamentale.

Altrettanto importante azione di pubblicizzazione è stata svolta da alcuni indirizzi letterari come quello veristico e poi quello neo-realistico e da alcune personalità dell'ambiente napoletano (Marotta, De Filippo). Mi pare chiaro, come allo stato attuale delle cose, sia il sud il problema da risolvere definitivamente e compiutamente, anche per la spinta politica sempre più decisa, pur se talvolta poco chiara, delle masse meridionali.


Introduzione critico – letteraria


Marotta e Jovine sono due autori antitetici, anche se riconducibili entrambi ad un modo realistico di vedere il mondo. Alla base delle due opere che prendiamo in considerazione c'è una esperienza personale: Jovine ha vissuto quel tipo di realtà contadina che descrive nel romanzo: la gente della sua terra, di Isernia, di Campobasso, la storia è ancorata tenacemente alla esperienza diretta, al momento storico e chiaramente possiamo in essa notare i problemi, le angustie del mondo meridionale. Marotta ha tradotto, nell’Oro di Napoli, la sua autobiografia di "scugnizzo” di vicolo in termini talvolta commossi e poetici, ma sempre ben connessi con la realtà.

La differenza tra i due scrittori è nel modo di raccontare, nel modo in cui “la vicenda si muove e si sviluppa”, oltre ad un impegno socio-politico molto più evidente in Jovine che in Marotta.

Mentre nelle Terre del Sacramento Jovine si rifà ai modelli veristici, esaminando con oggettività e semplicità lo sviluppo della vicenda che ha una problematica storica, sociale e ideale ben precisa, Marotta trasmette tutto se stesso nella narrazione, trovando un naturale sbocco nel parlare di Napoli di cui crea aspetti nuovi e personali. Inventa una sua Napoli, un suo mare, vicoli, piazze desumendole dal ricordo nostalgico della sua adolescenza, colorando di umanità, animando di nuova vita tutto, attraverso la sua fantasia e le invenzioni del suo stile poetico, senza però "provocare" il lettore.

E’ così possibile *classificare" Jovine tra i neo-realisti, mentre Marotta, pur rimanendo un realista, non si può inserire in una ben precisa corrente letteraria perché ci sono validi motivi, ora per avvicinarlo agli scrittori regionalisti-folkloristici per la sua dialettalità, ora ad un certo socialismo umanitario per la sua partecipazione alle condizioni del sotto-proletariato napoletano.

Le "Terre del Sacramento” - Jovine F. (Guardialfiera, Molise 1902 - Roma 1950)

Jovine è considerato tra gli scrittori più significativi del movimento neorealistico. Nei suoi primi racconti, non sempre riusciti, lo scrittore affrontava già temi di carattere sociale “storie di studenti poveri venuti dalle campagne in città per gli studi; contadini con i loro pregiudizi e le loro miserie”. Un primo tentativo di romanzo storico-veristico fu fatto con “La signora Ava", tentativo poi ripreso con "Le terre del Sacramento” in cui la rievocazione del mondo contadino e delle sue lotte per la propria liberazione è collocata non più in una età lontana e in un certo senso fantastica, ma negli anni vicini e rappresentati storicamente dalla instaurazione del fascismo.

Il romanzo, composto con una scrittura scarna e oggettiva, sale però in alcune parti a toni di rappresentazione epica e quasi leggendaria, come nelle pagine finali della morte di Luca Marano. L’arte dello scrittore ha condotto il racconto in modo che mai se ne intravede il fatale epilogo. Apparentemente si lascia distrarre da molti quadri di vita di provincia che sono però sottilmente legati da una loro necessità, per arrivare alla tragedia che è stata disseminata e preparata nel tempo, Jovine ha appreso pienamente la lezione del Verga dei Malavoglia; riporta il “metodo” del Verga nelle terre del Molise, cambiando l’ispirazione: non più il bisogno religioso del “far la roba” (radice oscura e profonda di quel mondo per la costruzione di una nuova vita), ma l’altro più elementare e religioso della terra da lavorare. Ma proprio qui, sul piano ideologico (non certo su quello artistico) Jovine scavalca il Verga, a suo tempo fermato nell'analisi da una visione pessimistica di quella società considerata immutabile, infatti Jovine sostituisce il pessimismo rassegnato con la visione di una realtà in movimento, in evoluzione, in lenta crescita sociale.

Con il suo stile impersonale ha impresso nelle Terre l'essenziale: quello che è insito nel carattere e nel colore delle cose e degli uomini; talora mostrando un po’ ironicamente fatti e personaggi strani come l’ex-giudice De Martiis che piange la morte del figlio tra lacrime e citazioni latine.

Oppure fermandosi su figure, abbandonate o trascurate nel resto del romanzo che lascia incompiute, come la cugina di Cannavale, Clelia, ospite nubile dell'avvocato su cui indugia all’inizio descrivendo i suoi timori di ragazza sola nella casa del"diavolo" o il fugace incontro tra Luca e la moglie del barone Santasilia nella fattoria del frassino. Sono elementi che non si inseriscono nel mosaico del romanzo.

Le “Terre del Sacramento” e la questione meridionale

Gli eventi che Jovine racconta nelle Terre del Sacramento mostrano ed illustrano le vicende di un mondo rurale, storicamente non lontano, che intende riscattare la sua misera condizione umana e sociale, spinto nella sua azione dal bisogno della terra da lavorare e da far fruttare. Su queste lotte per la propria liberazione scende come una valanga, estremamente dannosa, il fascismo e la sua oppressione sociale, politica, culturale, economica.

Luca Marano, Laura Cannavale, i contadini si muovono in una città della provincia meridionale, del Molise, chiuso alle novità del nord, chiuso alle influenze e al progresso del tempo e della civiltà. Su tutti grava una atmosfera di fatalità, legata alla secolare tradizione feudale, che divora gli uomini e le cose e tende astuzie innocenti, incolpevoli a tutti gli ingenui come Luca Marano che poi riscatta con la morte la sua fiducia in uomini troppo astuti rispetto a lui.

Il suo senso della giustizia è eccessivamente lontano dai luoghi e dal momento storico in cui la vicenda si svolge. Luca infatti di fronte all'inganno non si rende conto della nuova situazione creatasi con l'avvento del fascismo e quindi con l’avvento della violenza autorizzata. L'ambiente agrario italiano ha trovato una nuova dimensione, negli anni post-bellici, con la nascita del fascismo: infatti, tornati dalla guerra, i contadini sconvolgono i rapporti agrari pre-bellici. Nel sud, in particolare, si rivendicano le nuove terre da lavorare, promesse più o meno tacitamente in trincea, nel nord i braccianti fissi chiedono nuove condizioni di lavoro. I proprietari concedono a malincuore parte di queste rivendicazioni con l'idea di toglierle il più presto e proprio il fascismo sarà il loro braccio attivo.

Ma Luca al di là dell’inganno e del tradimento crede fermamente nella lotta e nel riscatto delle sue popolazioni oppresse. Lo vediamo così camminare a Napoli, sotto la pioggia e scoprire in se stesso e nel mondo esterno una nuova realtà: dentro di sé scopre un acre disprezzo verso i fascisti e la loro violenza, mentre all’esterno troppa gente vedeva in loro i liberatori e i creatori di un nuovo stato e di nuove condizioni di vita. L'odio di Luca è istintivo e deriva viceversa dalla eccessiva fiducia nella giustizia intima e universale che si trova in ciascun uomo. Non ha letto grandi libri. ma sente e manifesta chiaramente la sua avversione verso la violenza personale e collettiva, premeditata e autorizzata. Luca non vuole rivolgimenti politici, nuove realtà politiche, rivoluzioni sociali, di cui non ha avuto coscienza teorica, ma solo il miglioramento delle condizioni dei suoi paesani, della sua gente. Si fa portavoce nuovo e cosciente del bisogno di terra delle popolazioni meridionali affinché chiunque abbia di che vivere umanamente. Forse non ha avuto il tempo per farsi una coscienza politica o forse l'ambiente di Galena non gliene ha dato la possibilità, ma tutto ciò non nuoce, anzi giova a colorirlo di una luce epica di martirio, non per una idea o un'altra, ma per il trionfo dell'umano sulla violenza e sull'egoismo individuale e di classe.

Nella famiglia povera, nel seminario tra i compagni studenti, per le vie e le osterie, nella grande baraonda di Napoli, tra i miserabili contadini di Morutri, vittime come lui dell'inganno, egli cresce e si fa uomo; si propone uno scopo, lo fallisce e muore, accompagnato da continue illusioni e disillusioni.
Intorno alla vicenda, intorno alle terre del Sacramento, vere protagoniste del dramma, si muove, si agita, o talora, dorme, nella secolare inerzia, la società di una città del Molise che raccoglie in sé tutti gli aspetti negativi del mondo meridionale dal punto di vista economico, politico e sociale.
L'arretratezza generale del sud ha certamente la sua origine nella storia di queste regioni e nelle sue condizioni geografiche,
tuttavia la questione meridionale nasce nell’ambito dello stato unitario quando questo si dimostra incapace di unificare e potenziare il processo di sviluppo generale del paese.

Il problema fondamentale, che il nuovo stato doveva risolvere, era essenzialmente quello agrario: già i riformisti illuminati del '700 avevano visto nei latifondi mal coltivati la causa prima della arretratezza del regno di Napoli a cui bisognava poi aggiungere lo squilibrio esistente tra la capitale e le campagne.

Napoli centro amministrativo e burocratico, viveva alle spalle della corte borbonica, quindi sulla produttività delle misere campagne che fornivano ai proprietari le rendite con cui essi vivevano. L'industria meridionale, sostanzialmente immobilistica, e senza prospettive traeva forza dalla politica protezionistica dei Borboni.

Il nuovo regno d’Italia, eliminando questi dazi interni, colpì soprattutto l’ambiente e la società più retrograda, cioè quella napoletana. Nè venne risolto il problema delle terre anche se il governo unitario dopo il 1860 lottizzò beni ecclesiastici e demani comunali che furono però assorbiti dai grandi proprietari, senza, perciò, toccare la struttura feudale del sud.

Le stesse terre del Sacramento sono espropriate alla chiesa,non però divise tra i contadini che sono, per di più, bloccati dalla superstizione delle donne e dal clero, ma sono vendute ad una famiglia di avvocati. Notava nel 1878 il Villari che le nuove istituzioni avevano assunto nel mezzogiorno una particolare funzione immobilistica mantenendo, al di la della scossa rivoluzionaria anti-borbonica vecchi privilegi, un arretrato ordinamento sociale, costumi semi-feudali e soprattutto lo “spirito sociale” della vecchia classe dirigente.

(Significativa, a tal proposito, è l'opera “I Vicerédel De Roberto che con modi veristici descrive l'adeguamento dei nobili siciliani alla nuove "cose" portate da Garibaldi e dai Piemontesi.)

La lottizzazione dei beni demaniali e religiosi provocarono una serie abnorme di liti tra Comuni, proprietari, Chiesa causando un grave disordine morale, riscontrabile anche nell'opera di Jovine dove le pendenze tra Cannavale e i Comuni si allungano come un'ombra sulle terre con un traffico di carte e documenti che si perdono nei tempi a scapito dei contadini.

La speranza che sorregge Luca Marano, Gesualdo, il D'Angeli, cioè i giovani intellettuali più poveri, è l'emigrazione. Questo fenomeno interessa tutte le classi più misere del Mezzogiorno ed apparve ai riformisti meridionali la prospettiva di un rinnovamento dei rapporti produttivi, sociali e della stessa vita morale e politica del sud. Infatti essi pensarono che, per mezzo di questo movimento, la questione meridionale sarebbe stata risolta in modo “naturale e spontaneo”: la possibilità di emigrare alleggeriva la sovrappolazione agricola e permetteva un miglioramento dei rapporti contrattuali tra padroni e braccianti poiché diminuiva l'offerta di manodopera. E proprio per questo fu osteggiata dal governo.

Più tardi si aggiunsero le rimesse degli emigranti e perciò aumentarono i capitali in circolazione nel mercato. Le rimesse degli emigranti, numerosissimi nel primo quindicennio del '900, se ne andavano al nord per mezzo delle banche oppure perdevano valore sia per i maggiori consumi, sia per l'aumento del costo della terra in seguito alla maggiore richiesta. Dalla particolare congiuntura favorevole dei primi anni del nuovo secolo fu accentuato lo squilibrio tra il nord industrializzato e il sud agricolo e statico perché in mano ad una classe dirigente che sosteneva un governo dì reazione e di violenza nel sud mentre favoriva uno sviluppo democratico per le masse operaie e agricole del nord. Lo stesso Giolitti trattò in modo diverso le due parti d'Italia sul piano delle lotte di lavoro, adottando per le masse rurali del sud la mano pesante onde evitare il pericoloso sviluppo del socialismo (eccidi del 1902). E proprio l'esistenza della grande proprietà assenteista, la debolezza della proprietà contadina, le misere condizioni dei braccianti impedirono uno sviluppo industriale in quella opportuna occasione e resero insufficienti i lavori pubblici che il governo faceva fare.

Salvemini, in questo periodo, pensò di vedere un valido mezzo di riscossa nel suffragio universale per permettere alle popolazioni rurali di entrare nella scena politica sommergendo le corrotte clientele dei deputati, libere di manomettere i bilanci comunali e le elezioni mentre i contadini, privi di qualsiasi arma di protesta legale, venivano tenuti a freno con le fucilate. Nel Mezzogiorno la classe che detiene il potere -dice ancora il Salvemini- è la piccola borghesia intellettuale che non avendo alcuna funzione economica utile si dedica alla più spregevole e dannosa politica. Mentre nel nord le altre classi possono metterla in secondo piano, nel sud essa detiene il potere con la massa abnorme di laureati in legge e di non laureati. La mancanza di una borghesia capitalistica e quindi di un proletariato industriale, la presenza di una massa rurale analfabeta e indifferente lascia il potere elettorale ai professionisti, agli impiegati diplomati e ai bocciati disoccupati. Proprio questa borghesia intellettuale avrebbe dovuto guidare la riscossa delle popolazioni rurali ma essa era moralmente marcia e quindi incapace di generare i leaders del movimento contadino, lasciandolo in balia di se stesso.

Il movimento contadino riusciva a rivoltarsi contro i "signori", ma non aveva la coscienza di appartenere ad una ben precisa collettività e perciò di dover svolgere una azione sistematica per mutare i rapporti economici e politici fermandosi a livello di terrorismo elementare (Gramsci).

La guerra del '15/18 ha portato nuove idee e una nuova psicologia nelle masse rurali.

Vediamo cosi -ritornando alla vicenda di Jovine- sorgere i primi gruppi socialisti di operai e braccianti nella piana. Manca però una adesione di massa perché mancano dirigenti, perché il clero mantiene una posizione autoritaria specialmente sulle donne, perché la politica del governo è ancora di stampo giolittiano: liberistica a nord, oppressiva a sud. Il clero ha ancora notevole autorità tra i contadini, anche se ha perso prestigio spirituale poiché il prete si presenta più come uomo comune che come ministro di Dio. Il suo compito di amministratore di terre, spesso in questione con i braccianti, le passioni comuni che spesso asseconda, tolgono agli occhi del fedeli la patina di religiosità, lasciando solo l'uomo simile agli altri. Questo decadimento della figura del prete opera un corrispondente decadimento della religione che resta più spesso superstizione pagana. A questo proposito chiare e ben definite sono le figure della madre di Luca e del parroco don Settimìo, figura oscura di prete, padrone di terre, che non aveva capito i giusti motivi da cui Luca era stato indotto ad uscire dal seminario, che poi non capì le rivendicazioni dei contadini, incline più a cerimonie superstiziose e paurose che religiose e caritatevoli. La madre di Luca è pervasa di una religiosità pagana, animistica, fatta di credenze magiche, di sortilegi, di violenta fede nei valori oscuri delle reliquie e delle immagini sacre: convinzioni secolari che non potevano scomparire facilmente in una società chiusa e arretrata economicamente come quella contadina meridionale.

Nonostante tutto il clero ha ancora una notevole autorità nelle campagne e in particolar modo nel sud si rifugia dietro le scomuniche per combattere ogni forma di novità sociale e per difendere i suoi interessi economici colpiti dalle confische terriere. La stessa vocazione religiosa, come un po' dovunque non aveva un intrinseco valore ma si presentava come palliativo, mezzo per evitare la miseria con una condizione di poco superiore.

Essa è ridotta a rango di professione assicurante un futuro economico che per lo meno eliminava la fame cronica delle campagne, unica e comprensibile preoccupazione di un mondo estremamente povero, privo di prospettive di un futuro miglioramento poiché non c'era la possibilità di uno sviluppo economico superiore, dalla fase agricola ad una artigianale-commerciale. Al vertice di questa società c'è una aristocrazia fondiaria sorda da sempre alle innovazioni e paga delle rendite delle campagne, minimamente interessata ad esse, ai problemi economici che la evoluzione del mondo causava anche in agricoltura con la concorrenza dei più vantaggiosi cereali americani. Questi agrari non si preoccuparono di ristrutturare la produzione, ma chiesero al governo una maggiore politica doganale e protezionistica.

L'opera di Jovine ci mostra una città del Molise popolata di avvocati e di apprendisti avvocati che hanno trasformato la piazza in foro, per le più sottili disquisizioni in cui hanno la sensazione di vivere nella sapienza, lontani dalla miseria e dalla fame che li circonda. Vediamo una nobiltà che aborrisce l'uso della lingua nazionale e che risentendo di influssi angioini-spagnoli-borbonici parla solo in francese o in dialetto: vediamo un Banchiere, il Santasilia, usare le astuzie che gli vengono dalla tradizione di secolari rapporti feudali tra signori e vassalli.

I contadini fantasticano sul frutto del loro lavoro, su lavori che allontanino definitivamente la fame. Jovine non indugia su una particolare classe, tutte sono dominate da qualche pregiudizio: gli avvocati credono nella forza elevatrice della laurea, i nobili si contentano di staccarsi linguisticamente dagli altri, i banchieri meditano l'inganno con astuzia "levantina", i preti sono restii ad ogni innovazione, i contadini hanno fame di terra e di lavoro ma sono ancora immaturi politicamente. Nessuno è protagonista assoluto: lo è Luca Marano, ma anche la madre delusa, il circolo e il caffè degli sfaccendati, le passioni della Società Operaia, gli assembramenti conviviali degli studenti a Napoli.

Un canto spira dalle Terre del Sacramento, è il canto segreto di tanta gente che sogna il lavoro come altri in giovinezza possono sognare l'amore, la potenza o la gloria; è il bisogno di terra che sorge da ogni riga del romanzo, il bisogno di lavoro per riscattare la propria condizione, la propria miseria, per uscire finalmente dal dominio feudale, per aprirsi decisamente alla nuova civiltà che vuol dire progresso sociale.

"L'oro di Napoli” - Marotta S. (Napoli 1902-1963)

Nella letteratura italiana si è formato un caso "Marotta” scrittore dalla effervescente immaginazione, dalla espansiva vitalità e fluidità espressiva, con il suo garbato discorrere, congeda il lettore senza porre punti interrogativi, senza provocare. Non ha mai obbedito alla logica delle ideologie e delle correnti, ma semmai al sentimento; è stato sollecitato a scrivere di Napoli dalle sue esperienze, memorie, affinità, connaturate con la sua sensibilità, come egli stesso dice nella prefazione a “l'Oro di Napoli”: ...c'è un momento nella vita di uno scrittore in cui la materia decide di somigliargli rivelandosi esclusivamente composta di fatti e di volti che gli appartennero e che lo sfiorarono...

L'Oro di Napoli è autobiografia, ma da esso traspare una certa sezione del mondo napoletano, autobiografia essa stessa.

Marotta riesce ad esprimersi con la mediazione di cose, persone, fatti, luoghi, umori, colori della sua Napoli. Il romanzo è combinato a mosaico, a incastro, con pannelli complementari dove il personaggio diventa macchietta, bozzetto e colore per integrarsi al momento scenico. Dal mare alle riviere, ai “bassi", ai quartieri, agli stracci, alla fame, agli spaghetti, alla pazienza dei napoletani, a don Ersilio Miccio venditore di saggezza, al ciabattino don Bernardo, a S.Anna, a Montevergine, all'amore, alla morte, ai guappi, alla sua infanzia, tutto fa Napoli.

La sua autobiografia è assorbita nella oggettività della composizione, egli partecipa della vita dei personaggi, degli oggetti, tanto che essi subiscono la contaminazione dei suoi sentimenti, della sua umanità, dando animazione ed umanizzazione a tutto:...il mare è a due passi, assorto e solenne davanti a questo martirio come un'acquasantiera...

Marotta è uno scrittore di notevolissima versatilità e duttilità: il suo ingegno è caratterizzato da una straordinaria fertilità e disponibilità che provocano, nell'insieme della sua produzione, forme ed esiti espressivi diversi.

L'autentico e migliore Marotta è quello in cui si articola il processo di simbiosi tra questo temperamento e il suo naturale spazio rappresentato da Napoli e dal popolino dei "bassi". Allorché soggettività o autobiografia e l'oggettiva materia del narrare coincidono, allora si hanno le prove più felici: “L'Oro de Napoli" e "Gli alunni del sole”.

"Mare e vicoli e gente della mia giovinezza mi hanno fatto scrivere questo libro..." dice in prefazione Marotta. E infatti i veri protagonisti del libro sono loro: il mare sempre presente con la sua brezza salata e umida; il vicolo con le sue voci, i suoi bassi, i suoi angoli oscuri o bruciati dal sole; la gente di Napoli intraprendente e paziente, colpita dalle sventure e dalla miseria ma sempre capace di riprendersi e di rifarsi. Non sono però immagini staccate, lontane ma ricordi della giovinezza, biografia di uno "scugnizzo" di vicolo.

Marotta vede per scene la cronaca di Napoli, che diventa subito storia per merito di una fantasia che garantisce sulla genuinità dei personaggi. Il suo pregio non riconosciuto è quello di dare alle parole una patina di nobiltà, nobiltà che viene inserita ed ancorata alla realtà attraverso la sua esperienza, e ad essa da un senso di poesia lirica per mezzo della parola mai aspra e violenta ma sempre melodiosa, dolce e umana: "E il cocchiere della carrozza nella quale Carmela si allontanò, sta ancora incitando gloriosamente i cavalli: arri primi amore, arri; nella spirale della frusta che schiena, si ovalizzano un banco di pizzeria e una coda di processione; riappare preso al laccio un angolo di Materdei nella straordinaria estate del 1919."

Su tutto è sospesa un'atmosfera di poesia, di malinconia lieve che guarda quella vita di dolore e miseria.

Napoli, particolare aspetto della questione meridionale

Qual'è l'oro di Napoli? E' la pazienza di rialzarsi dopo ogni caduta, di riprendersi dopo le sventure del destino, di superare i pericoli che insidiano la vita umana.. Così spiega Marotta nel primo racconto. Don Ignazio Ziviello, un tempo ricco prima di aver sperperato il suo patrimonio, elasticamente si adatta a multiformi e diverse attività, gobbo, ma per nulla complessato, incomincia a mendicare con la moglie finchè essa non muore in un incidente, poi si distingue come fabbricante di fuochi artificiali finché non è colpito da un paletto, diviene così portiere di una casa che crollerà, riuscendo a salvarsi.

Dice Marotta: "sono molto antichi i sette spiriti di don Ignazio...i napoletani intingeranno le dita in questa cara acqua benigna e fattisi il segno della croce, ricominceranno a lavorare e a ridere."

L'uomo del vicolo è fatto così: sempre assillato dalla miseria, dalle sventure, ma pronto a risollevarsi e ad iniziare una nuova vita in quei vicoli brulicanti di attività, di gente, di affarucci. Dopo la morte del padre Marotta visse poveramente, visse di pane con sale ed olio, tipico cibo di una casa meridionale poverissima, perché dovunque c'è un po' di pane raffermo, qualche goccia di olio e un pizzico di sale; usanza della povera gente del sud che le donne si tramandano insieme ad un odore "misero e buono", un odore di ingiustizie accettate o debiti rimessi o tentazioni respinte, un odore che significa "sia fatta la volontà di tutti“.

La sua vita fu quella di un qualunque scugnizzo protetto solo da qualche anima del paradiso.

Figura tipica sono i “baraccari”, bottegai che avevano i loro negozi in certe meste botteghe tappezzate di scadenti vestiti, che cercavano di vendere ai provinciali dopo averli adescati con mille trucchi. Ma la bellezza di Napoli è il clima, lo scenario che circonda la vita degli uomini: l'acqua blu, l'odore di alberi, di foglie verdi, il Miracolo di Dio nel mescolare il giallo del tufo col verde dei vigneti, col turchino dell'acqua col rosso delle nubi al tramonto.

E' lo scenario che aiuta l'uomo a sopportare le sue miserie, a cercare di deporle furtivamente in allegre baraonde notturne nei giorni di festa. Il tema sempre presente è quello del vicolo, cuore profondo della città: i bambini sulle porte che sorgono con la stessa urgenza con cui si formano le cozze nei vivai di S. Lucia; una camicetta appesa ad una finestra; un paniere che scende dall'alto; il venditore di pizze con i suoi pochi e semplici arnesi del mestiere; la storia dell'anello di smeraldi che si sparge a macchia d'olio nel Vico Lungo S.Agostino degli Scalzi: è una storia di gelosia, di una bella donna, di un anello perso e poi ritrovato. Storia simile è quella di don Saverio, vittima sfruttata per trent'anni da don Carmelo, finchè ritorna la dignità nell'uomo e nella famiglia. Ora il vicolo si trasforma in un torrente ora è cotto dal sole, ma lì sempre il napoletano si arrangia facendo mille mestieri, trovando mille modi per campare, mille cose da vendere a sprovveduti turisti: lampade a forma di ghigliottina, specchietti su cui appaiono due corna, piccole strane cose inventate chissà dove. Riescono anche a vendere saggezza: è il caso di don Ersilio, venditore di consigli. Oppure come don Gennarino che vende brodo di polipo all'uscita del Teatro Nuovo, come don Ciro che ricava discreti guadagni da sue piccole lotterie che sfruttano il desiderio popolare di vincere qualche volta la sfortuna e la miseria.

O come il "paglietta" il cui compito è di procacciare certificati, di curare pratiche legali; o come don Pasquale l'esperto del "pernacchio" che si affittava per qualsiasi compito ma come ogni arte nasce dal dolore, così gli sberleffi di don Pasquale nascevano dalla sua tristezza di bambino abbandonato. Uomini poveri, spinti talvolta alle più disperate imprese per sopravvivere, ma dentro di sè leali: accettano solo il confronto con chi ha la forza di opporsi.

Gli scugnizzi veri non aspettano niente, usano i muri come ombrelli, come guanciali, tanto soli che il mondo finisce dove finisce il loro sguardo.

Su tutti domina l'amore e la morte. I giovani di vicolo vogliono le ragazze come esaltanti medaglie da mettere sul petto, dopo aver rischiato, talora, il carcere o l'ospedale: il momento più bello per la donna è questa attesa, poi, dopo il matrimonio, fatiche e figli la distruggono, la sua casa spesso è di un'unica stanza, la sua gioia è breve, la sua bellezza fuggitiva.

La morte a Napoli è di casa: lo stesso comportamento esageratamente tragico dei parenti del morto è un trucco ingenuo per illudersi che la morte sia una rarità, par solennizzare il più comune degli avvenimenti locali. Le vicende dei personaggi di Marotta sono sempre dominate proprio da questi fattori: dalla storia passionale, l'amore, l'adulterio, il tradimento che si conclude più spesso con l'omicidio, con la morte, quindi con la pazzia. Questo è il caso di don Peppino, il “pazzariello" di porta Capuana che canta e volteggia tra la folla con una banda di primitivi strumenti, nel suo policromo costume per fare la pubblicità ad un negozio o ad un prodotto. Sua moglie meridionale e razionale non riesce a capire il sue mestiere, l'adulterio viene scoperto e don Peppino impazzisce. Da questa vita misera e dolorosa nasce come reazione il desiderio di liberarsene, seppure in brevi e pochi momenti di ebbrezza collettiva,in feste veramente sentite e vissute: il pellegrinaggio a Montevergine quando poveri e ricchi ostentano i vestiti migliori, creandosi un ritratto meraviglioso che mantengono per tutto il viaggio. Il pellegrinaggio è soprattutto il regno degli “squarcioni” vanitosi e smargiassi, pronti a qualsiasi cosa, pronti a spendere duemila lire per un uccello canterino arrosto.

La costante è sempre quella: la lotta continua per sopravvivere; qualunque mestiere conduce alla miseria e al dolore:"...il popolano si volta e si rivolta sui mestieri come su un letto di chiodi, preoccupandosi di usare le parti non colpite per mettere al mondo innumerevoli figli che ereditino la sua versatilità..."

Le feste assumono proprio il compito di far dimenticare al popolo la sua triste e condizione, attraverso la breve gioia della festa a lungo attesa. A Natale le botteghe si riempiono di merce; nel suo negozio don Aniello prepara la mostra della frutta, l'anfiteatro di mandarini, arance, meloni, una costruzione imponente che custodisce anche di notte finché la sua vita si spezza quando il suo ultimo brandello di polmone tisico smise di funzionare così se ne va pensando ai quattro figli morti e alla moglie che lo tradisce. Il Natale arriva per tutti, anche per la classe di avvocati, medici, ingegneri troppo numerosa per trovare litiganti, ammalati, mattoni in numero adeguato; aspettano con la festa i doni dai loro clienti di campagna. Nulla accade a Napoli senza un ben preciso motivo: se uno canta alle tre di notte soffre di insonnia o d'amore; se qualche bambino chiude con la mano una fontana pubblica, spruzzandosi acqua dovunque, lo fa perché tre persone su cinque che passano hanno un vestito nuovo; Napoli stessa fu edificata lì vicino alle lave, alle pestilenze solo perché S. Gennaro si guadagnasse stima proteggendola da queste sventure; la causa di altre più banali sventure è la “Jettatura” che si manifesta più clamorosamente qui che altrove e che a Napoli ha i suoi depositari come il gasista don Nicola. Egli incominciò la sua attività al momento della nascita quando la madre morì, per terminarlo con la sua morte.

Marotta conclude con un'amara considerazione: la sventura è cosi attiva e nello stesso tempo affettuosa a Napoli proprio perché ci sono tanti don Nicola. Possiamo dire, cioè, che in pratica la sventura fa parte, e mai se ne distaccherà, della vita e delle vicende dei napoletani perché intrinseca alla loro natura.

Questo è il quadro che Marotta ci dà e che è riferito agli anni della sua giovinezza, cioè gli anni venti; è un quadro amaro, come d'altra parte quello di Jovine, e perciò ci si può chiedere se qualcosa è cambiato negli ultimi anni.

C'è stato un rimescolamento di carte: il sud contadino miserabile e disperato non è scomparso, ma si è sgretolato, ha assunto una consapevolezza che non aveva; nuove classi si formano; le generazioni più giovani manifestano una precisa volontà di partecipazione alla vita attiva.

Non è molto però; nelle città gonfiatesi si è ammassata una media e piccola borghesia soggetta ai grandi mali del trasformismo e del clientelismo. Dal punto di vista economico il reddito rimane al di sotto dei consumi; l'economia è sostanzialmente parassitaria, sostenuta dalla pubblica amministrazione attraverso il sistema clientelare. La maggior parte dei posti di lavoro appartiene al settore terziario (amministrativo-burocratico); la cosiddetta società dei consumi ha spinto le masse alla ricerca del benessere, ha, in certo modo, sollevato le condizioni di vita di migliaia di persone.

E' cresciuta la capacità critica delle masse meridionali, e ciò ha accentuato il divario tra partiti e opinione pubblica. La classe politica e i partiti hanno molti torti soprattutto quello di aver continuato la tradizione baronale degli intrighi, del clientelismo, degli interessi personali.

Il più grosso nodo da sciogliere è forse di natura etico-politica: una mentalità pari a quella delle vecchie baronie si è impadronita dei centri di potere. I partiti politici sono venuti meno alla loro funzione di formazione civile, non sono stati capaci di farsi mediatori del rinnovamento della società, sono stati oppressi dalle forze tradizionali del clientelismo e del trasformismo. Al posto del lamentoso vittimismo di un tempo la gente mostra ora una chiara e pericolosa insofferenza; vuole partecipare al benessere che è ancora una conquista fortunata per pochi e un miraggio per molti.

A ciò bisogna aggiungere il fatto che Napoli non ha saputo trovare una funzione nel sud, dopo la perdita della capitale; fino all'ultimo dopo guerra le era rimasto il ruolo di guida culturale (Croce) con una prestigiosa università; ora ha perso anche questo perché la sua classe dirigente è stata sorda e cieca. Da essa infatti emigrano gli intellettuali mentre rimane il popolo che si accresce in continuazione. La popolazione attiva è il 30% non potendosi contare le migliaia di persone che vivono ancora di espedienti, di mezzi mestieri che la fantasia napoletana inventa. L'interclassismo dei vicoli, dove coabitavano avvocati e venditori di brodo di polipo si sta sfaldando: esiste già la Napoli degli artigiani e dei commercianti (40mila calzaturieri a domicilio, 70mila guantai); esiste la Napoli degli operai che ha riempito i casermoni di Fuorigrotta; c'è la piccola borghesia impiegatizia che si è trasferita sul Vomero, nei nuovi quartieri della speculazione edilizia.

C'è infine la Napoli dei ricchi e degli Americani della NATO nei loro quartieri residenziali. Nei vicoli è rimasto il popolino che vivifica la città, che produce ancora quel tipo umano, miscuglio di umorismo e saggezza. E' una città che frana in tutti i sensi, che ha bisogno, come il sud, di un risanamento profondo e di una nuova classe dirigente meno corrotta, di uno sviluppo chiaro e programmato. L'unica forma di neo-capitalismo avutasi a Napoli, è stata quella "laureana” degli armatori e della speculazione edilizia che ha dato l'ultimo sussulto alla vita economica della zona. In pratica la città, al contrario delle campagne,di Caserta,di Salerno, si avvia a diventare il sobborgo di Roma, un satellite privo di valore.


Bibliografia

"Le Terre del Sacramento", F. Jovine.

"Il Sud nella Storia d'Italia", R. Villari.

"Scritti sulla Questione Meridionale", di B. Caizzi.

"Antologia Critica", di G. Petronio.

"I Narratori (1850-l950)", di L..Russo.

"Corriere della sera - agosto 1950, articolo di Pancrazi.

"L'oro di Napoli", di G. Marotta.

"Fiera Letteraria", 1958.

Paladino in Letteratura Italiana Marzorati.

Corriere della Sera" 23-24-26 Febbraio 1971, 26 Aprile 1971.